C’era una certa agitazione in
giro per le verifiche di quel San Martino del 1977.
“Pare che la gara non si faccia, mancano le autorizzazioni”
era la voce più insistente che girava come un odioso moscone
in mezzo ai quasi duecento concorrenti che increduli si
interrogavano uno con l’altro.
Le Stratos di Munari e Pregliasco sonnecchiavano in un
piazzale, con attorno una folla enorme di gente, più avanti
le blu 131 Olio Fiat di Verini, Bacchelli e clamorosamente
anche tale Walther Rohrl che debuttava a sorpresa sulla
vettura torinese nonostante l’iscrizione fatta con la
Porsche, una moltitudine di Opel in gruppo 1 e 2. Quasi 200
vetture ferme ad aspettare che gli organizzatori
sbloccassero la situazione e intanto l’ora della partenza si
avvicinava senza che la matassa fosse sbrogliata, anzi!
“Nemmeno l’intervento di
Cossiga ha migliorato la situazione” mi disse una persona
molto vicina all’organizzazione capeggiata dall’avvocato
Stochino, avevano tentato perfino la carta del Presidente
del Consiglio, ma alla sua telefonata il commissario
prefettizio minacciò di dimettersi clamorosamente facendo un
casino sulla stampa. Cosa ci fosse dietro non l’ho mai
nemmeno immaginato, ma credo che ci fossero delle cose molto
più grandi di quello che noi possiamo normalmente
immaginare.
“La gara probabilmente partirà domani sera con tre sole
prove speciali da ripetere fino al raggiungimento del
chilometraggio minimo, non c’è altra soluzione”.
Si respirava un’aria davvero pesante soprattutto in quei
tempi in cui i rally erano davvero considerati uno sport
importante, e che il commissario prefettizio non avesse
rilasciato, o forse ritirato i nulla-osta già dati per
tempo, era un fatto davvero incredibile in una gara che tra
l’altro aveva la validità per la prima coppa FIA conduttori
e che Sandro Munari si stava aggiudicando cavalcando la
tricolore Lancia Stratos Alitalia. Uno schiaffo davvero
grosso, considerando gli appoggi che i rally avevano allora
nelle istituzioni.
Ne discutevamo poco prima
della partenza nella hall dell’albergo Dolomiti, assieme al
mio navigatore Andrea Meggiolan, quando entrò di colpo sua
sorella assieme ad un ragazzo, magrolino un po’ pallido
dalla faccia spaurita, indossava una tuta Sparco bianca
sembrava quasi un infermiere e il colore gli sbatteva ancora
di più la sua cera già da oltretomba.
“Questo è il mio ragazzo” disse lei. “Corre con l’Ascona
gruppo 2 quella rossa che era dell’Armando Gianesini”
Non era forse la prima volta che lo vedevo, però in quel
momento la sua identità mi sfuggiva e soprattutto non ci
feci caso visto anche che l’Ascona rossa del povero Armando
era considerata da noi una specie di ossario e che con la
127 altrettanto ossario ci arrivavamo quasi sempre davanti.
“Questo qui con quell’aria là intralcerà di sicuro tutti
quelli dietro” spifferò sottovoce Gianni che era venuto a
seguire la nostra gara. L’anno prima avevamo corso assieme e
l’avventura era finita in fondo ad una scarpata sul Monte
Grappa “Non corro più con te, sei matto e non sai andare,
vai troppo poco di traverso e poi fatti recuperare dall’ACI
io me ne vado” aveva sinistramente proferito appena aveva
faticosamente messo fuori il naso dalla 127 ribaltata il cui
numero da 166 era tristemente diventato 991 e così venne
solamente per vedere la gara, diffidando dal salire con me
anche solo per andare al tennis, voleva sempre guidare lui
“Tu sei matto e io ho famiglia” diceva con il tono del
saggio.
“Hai già fatto qualche rally?” Gli chiesi approfittando del
momento in cui mi guardò.
“Si ho corso il Valli Piacentine”
“E com’è andata?”
Divenne rosso, non so se di rabbia o di timidezza.
“Sono uscito di strada”
“CAPITA, ma è molto meglio se non succede”
“Però faceva dei bei tempi” disse Andrea.
“Ma pensa te…”
“Ahhh!!! Quello non sa andare, basta guardarlo… Non vedi che
tristo (parola veneta che significa sbiadito, privo di
qualunque reattività)” ribattè Gianni agitando le mani.
“Non ha la faccia da acceleratore, si vede ad un chilometro”
La gara partì con un giorno
di ritardo, tre sole prove speciali, Desene, Manghen e
Tognola, ripetute alla noia per due giorni. Come sempre la
mia 127 alzò bandiera bianca, perse un puntone di reazione
anteriore, la cui base sulla scocca era malamente crepata
già da chissà quanto tempo visto che si vedeva chiaramente
della ruggine. Restammo tutta la notte a guardare i passaggi
delle altre vetture da Munari, che davvero fece dei passaggi
da manuale, fino all’ultimo sfigato per ben tre volte, al
mattino finalmente il carro ACI ci portò in un’officina dove
con una semplice saldatura ripararono il problema
permettendoci di ritornare a San Martino con l’auto integra
ma chiaramente fuori gara, restammo fermi in prova 8-10 ore,
una vita.
A dire il vero il ragazzino sbiadito, che più tardi scopersi
nato nel mio stesso anno solo sei mesi dopo, passava ogni
volta con una grinta e una cattiveria notevole, con belle
traiettorie, anche se di traiettorie si poteva parlare poco
in quei tempi in cui vigeva di più la tecnica
dell’equilibrismo.
“Cacchio! Non va mica male tuo cognato, ha l’aria di uno
sfigato però l’Ascona la fa girare piuttosto bene !”
Più tardi sul tabellone di legno appena fuori la direzione
gara guardavamo i suoi tempi e credo che la vecchia Ascona
ex-Armando non avesse mai nemmeno avvicinato quelle
prestazioni prima di quel momento… e neanche dopo quando lui
la vendette per correre con la 112.
Probabilmente nessuno credeva in lui, tranne lui stesso che
sapeva già in maniera inequivocabile cosa fare e soprattutto
come farlo.
“I miei mi lasciano correre alla sola condizione che spenda
i miei soldi, non ne ho neanche uno ma mi do da fare” Disse
sempre quella sera in cui lo vidi per la prima volta.
Durante l’inverno seguente ci trovavamo spesso quassù a cena
insieme a molti rallysti e una sera convinsi Sandro Munari
che a quei tempi festeggiava abbastanza allegramente, di
portarci a fare un paio di numeri con la mia Beta HPE per
vedere come si doveva guidare.
Salimmo in cinque, tra cui anche l’uomo senza tempo.
Sandro ci diede dentro e mica poco, fu uno spettacolo
davvero unico per tutti tranne che per la mia povera Beta e
alla fine, orgoglioso della prova data dal mio amico
campione chiesi “Beh allora cosa te ne sembra?” L’uomo non
fece una piega, mi guardò senza neanche cambiare espressione
e disse “Anch’io guido così!”
Non vi racconto la reazione dei pochi presenti, tra cui il
sempre goliardico Gianni, fu tacciato di ubriachezza molesta
e messo alla gogna per aver solo paragonato se stesso con
l’allora re dei rally.
Me ne accorsi alcuni anni dopo studiandolo a fondo, che la
sua guida era davvero molto simile a quella del Drago. Aveva
ancora una volta ragione lui, lui guidava davvero così.
Fu così che conobbi l’uomo
senza tempo, il suo nome è Gian Franco Cunico, una persona,
un amico che attraversò spesso la mia vita, non nascondo che
tra noi ci fu sempre una certa rivalità e le poche volte che
gli stetti davanti furono sulla terra, quasi mai
sull’asfalto e credo comunque che ad oggi sia uno dei
migliori piloti che l’Italia abbia mai prodotto. Lo reputo
tuttora un genio della guida, fu abile nel trovarsi quasi
sempre nel posto giusto al momento giusto, guidò tutto e di
tutto sempre al massimo delle sue possibilità e spesso
oltre, un carattere difficile scontroso ma molto
determinato, cadde, risorse, ma mai giacque. L’uomo senza
tempo è ancora lì, un po’ ingrassato e stempiato, con la
stessa decisone che aveva trent’anni fa. Quando c’è da
mettere del suo è sempre in prima fila, sempre con la stessa
voglia di vincere di un tempo, perché per lui il tempo non è
passato e non passa mai.
Per questo ho voluto dedicargli queste righe, è un esempio
davvero incredibile di volontà, capacità, caparbietà e
longevità che qualunque giovane dovrebbe perseguire. Correre
nei rally non è solo saper guidare la macchina, se si sa
fare anche questo tutto diventa un po’ più facile, ma poi
mettere il sedere al posto giusto non è davvero semplice e
comunque bisogna meritarlo.
Tieni duro uomo, in fin dei conti rappresenti i sogni di chi
non ha potuto e non ha avuto le tue grandi capacità, non
mollare mai…
foto Massimo Bettiol |