con la stessa passione e
professionalità, lui Arnaldo Bernacchini ora viene spesso
alla mia scuola ad insegnare ai giovani debuttanti l'arte
del rally, la magia delle note per la quale ha dedicato
tutta la sua vita con un entusiasmo veramente fuori dal
comune.
Chi non si ricorda i mitici equipaggi, Ballestrieri
Bernacchini, Pinto Bernacchini, Munari Bernacchini, Verini
Bernacchini fino a Vudafieri, Bettega o Zanussi ed ora...
Galli Bernacchini, già non fate confusione però,
quest'ultimo è il figlio Giovanni, come nelle tradizioni più
antiche il padre insegna l'arte al figlio, come una volta si
insegnavano i mestieri più difficili, lui ha voluto
tramandare con successo l'arte al figlio, la sua passione
sconfinata, un vero amore per la specialità più bella del
mondo, il rally.
Lo stavo fissando l'altra
sera a cena, è sempre lui uguale a sempre, la barba un po'
più bianca qualche capello in meno e forse qualche chilo in
più, ma dai suoi occhi lampeggiano ricordi, immagini che
solo lui ha potuto vedere. Parlavamo come sempre a ruota
libera e così ho deciso così di scrivere qualcosa su di lui,
qualche flash di storia raccontato al volo, davanti ad una
bistecca e ad un bicchiere di vino.
Quella volta con Lele (Pinto)
eravamo in Finlandia, lui non aveva mai misure andava sempre
a chiodo, ti giuro che certi passaggi come li faceva lui non
li faceva nessuno, aveva una classe come pochi, durante le
ricognizioni ci fermammo ad osservare un grande salto e ad
un certo punto esclamò convinto “Questo lo facciamo in
pieno”. Allora a quei tempi non c'erano problemi durante le
ricognizioni e tornammo rapidamente indietro lo spazio
sufficiente per affrontarlo a palla.
Quando ci alzammo in volo guardai fuori dal finestrino e
vidi la strada come in una veduta aerea, larga come una
lasagna, atterrammo di muso con un fragore impressionante,
una botta da far paura, la povera 124 Abarth era piegata a
metà con le portiere aperte, sembrava un aereo abbattuto,
pezzi dappertutto, distrutta, non era da fare in pieno...
Ad Arganil in Portogallo
nella nebbia fittissima il Lele riuscì a scaricare la
quinta, non si vedeva nemmeno il cofano della macchina ma
lui ci spiattellò la quinta, neanche da credere, vincemmo la
gara con un bel margine, fu davvero un capolavoro, solo lui
sapeva fare queste cose.
Durante i test fece salire un ingegnere della Corte e Cosso,
avevamo dei grossi problemi di ammortizzatori e la ditta
costruttrice ci mandò un tecnico per cercare di risolverli.
Appena arrivato su da noi dopo un trasferimento
inimmaginabile, iniziò a raccontare di aver girato in pista
con Tizio Caio e Sempronio tutti piloti ben conosciuti a
quei tempi nell'ambiente del turismo su pista, quasi
snobbava i rally e ci guardava un po' dall'alto al basso (è
sempre molto riservato Arnaldo) ad un certo momento chiese
di poter vedere da dentro il comportamento della macchina,
non aspettavamo altro, il Lele entrò come sempre con un po'
di fatica ma quando lo guardai in faccia capii subito che il
povero ingegnere ne avrebbe sicuramente visto delle belle,
lo aiutai a serrare bene le cinture mentre Lele mi guardava
con quel suo sorrisino più che sarcastico.
Partì come una freccia e lo vidi entrare nella prima curva
come sapeva fare solo lui, il rombo della 124 rosa e verdino
sparì nella foresta tra una nuvola di pietre che volavano
dappertutto.
Alcuni minuti dopo riapparve ancora più forte di com'era
partito fermandosi di traverso davanti al furgone della
Fiat. Mi precipitai ad aprire la porta per far scendere il
pietrificato ingegnere, questi ovviamente era imbalsamato
sul sedile e solo quando scese dopo diversi minuti, ci
accorgemmo che se l'era fatta letteralmente addosso era
bagnato fino alle ginocchia. Non parlò più della pista e dei
suoi ormai ex idoli ma non solo, azzeccò anche la
preparazione degli ammortizzatori tanto che la macchina
vinse la gara.
“Ho capito il problema... ho capito...” continuava a
borbottare con i pantaloni fradici, fu portato subito in
albergo per cambiarsi...
Il Drago invece era un
altro tipo di personaggio, tranquillo, preciso addirittura
matematico, lui fu il primo pilota professionista col quale
corsi, un grande guidatore, una classe fuori dal comune.
Mi ricorderò sempre con Sandro alla fine del '70, c'era un
rally di campionato europeo e a quei tempi le ultime gare
del campionato erano aperte anche ai prototipi in modo da
poter dar modo alle case di sviluppare le vetture per la
stagione successiva. Fiorio e Maglioli si inventarono una
versione della Fulvia “barchetta” la F&M. Presero il
traliccio anteriore della Fulvia e il ponte dietro con le
balestre e le attaccarono tra loro con un telaietto,
mettendoci in mezzo l'abitacolo fatto con quattro tubi di
alluminio, il tutto completamente senza tetto solo con un
piccolo parabrezza di plastica alto pochi centimetri, la
macchina ovviamente pesava molto meno della Fulvia e poteva
in questo modo reggere anche se con fatica il confronto con
le Alpine Renault che a quei tempi erano imbattibili, il
problema era però rappresentato dalla stagione avanzata, la
fine di novembre e dalle temperature molto basse che si
registravano nella sierra attorno a Madrid. Di riscaldamento
nemmeno a parlarne pesava troppo, ci furono messe addosso
delle tute da discesa libera, quelle che si usavano per il
chilometro lanciato, figuratevi in caso di fuoco cosa
sarebbe successo. Si partiva da Madrid nel pomeriggio
inoltrato, già era un freddo bestiale, ma nonostante questo
nella prima prova diamo due secondi a Nicolas con l'Alpine,
figurati mai era successo che in velocità pura andassimo più
forte delle vetture dell'armata blu, se le battevamo le
battevamo sull'affidabilità.
Io ero coperto, imbottito con giacca e scarpe pesanti, ma
Sandro no, non avrebbe potuto guidare imbacuccato come ero
io, nonostante sotto avesse la famosa tuta da chilometro
Lanciato il povero drago era congelato, qualche volta
arrivavamo con largo anticipo al c.o. E ci toccava aspettare
all'aperto il nostro turno guardando gli altri che se la
ridevano rinchiusi nel loro abitacolo con il riscaldamento
acceso. Verso la metà della tappa alle due di notte il drago
mi disse “Io mi fermo tu scendi e apri il cofano finchè non
ci vedono tre quattro macchine dietro” Ci fermiamo per fare
questa messa in scena e gli dico “Drago... ma poi ripartiamo
vero?”
“Arnaldo guarda la carta e dimmi la strada più rapida per
andare in albergo” rispose quasi balbettando.
“Come in albergo almeno andiamo in assistenza”
“Nooo in assistenza no, là c'è Cesare (Fiorio) io so com'è
lui ci convince, ci mette una sciarpetta e ci fa
ripartire... Ci fa bere un punch caldo e ci rimanda via,
nooo per carità! Hai capito bene Arnaldo andiamo a casa
perchè qui ci facciamo del male, non sento più le mani e i
piedi è pericoloso”
Perchè il drago dicesse una cosa del genere la faccenda
doveva essere davvero grave.
“Ci facciamo del male” continuava a ripetere...
Quando arrivammo in albergo il drago si bevette perfino due
o tre cognac e proprio in quel momento suonò il telefono.
“Come dove siamo... Siamo in albergo Cesare c'è da farsi del
male”
Così finì la storia dell'anti-Alpine.
Nel '71 con Amilcare (Ballestrieri)
partimmo per il Montecarlo da Marrakesh alle 10 di sera del
venerdì sotto il crepitio di fucileria di un manipolo di
fucilieri Berberi e Balestra convinto mi fa
“Belin scappiamo che ci sparano”, l'avvicinamento era lungo
2.800 km e il primo settore da Marrakesh a Tangeri 700 km da
fare a 100 di media. Tre giorni solo per andare alla
partenza della gara fino a Roen (non so se si scrive così)
sopra Nizza dove arrivammo alle 4 del mattino del lunedì e
da lì senza sosta la prima prova fino a Pont de Miolans che
era di “soli” 50 km.
Poi un'altra prova al col de Perty e poi via verso l'Ardeche
distante 300 km. Su strada normale, non finiva mai.
Durante la marcia di avvicinamento nel deserto tunisino,
dovevamo passare delle montagne dove avrebbe potuto esserci
della neve e fummo costretti a mettere delle ruote chiodate
di scorta in una bagagliera sul tetto.
Immagina la tappa fino a Tangeri a 100 di media con quelle
strade, di notte e con la Fulvia che non faceva più di 140
con i rapporti corti che aveva, come unico comfort ci
avevano messo dei sedili ribaltabili e a turno una vettura
andava davanti e le altre due (Munari Mannucci e Barbasio
Sodano) che seguivano mentre a bordo si dormiva a turno, per
quello che si poteva con il rombo infernale della Fulvia.
Ad un certo momento sento degli scricchiolii provenire dal
tetto, “Amilcare fermati che perdiamo la bagagliera” tirai
fuori la mia borsettina che avevo sempre con me. Ah! Una
volta me la vide Cesare e me la buttò in un prato perchè la
giudicava pesante, era un maniaco del peso.
Insomma iniziai a riparare il portapacchi in pieno deserto
al buio e mentre torcevo il fil di ferro spiegavo ad
Amilcare quello che stavo facendo sentendo la sua presenza
dietro a me, ma ad un tratto girando l'occhio vidi Amilcare
da tutt'altra parte che stava facendo la pipì, momento di
terrore, mi girai e vidi uno con un nasone e con il turbante
a pochi centimetri da me, tirai un urlo e un salto che quasi
saltai via l'automobile, Amilcare più spaventato di me si
mise a gridare “Belin cosa succede uehh cosa c'è... Belin!”
e intanto quello, più spaventato di noi correva via nella
notte sventolando la palandrana tipica degli abitanti del
deserto.
Da dove fosse spuntato in mezzo a quel deserto nessuno la sa
ma ci prendemmo mezzo infarto noi e anche lui.
Sempre quella volta finimmo le ricognizioni con le prove
dell'ultima notte, poi si tornava a casa qualche giorno e ci
si preparava per la gara, tutti avevano voglia di finire le
prove anche perchè era un bel po' che si girava, Amilcare
stava caricando le valigie ma aveva un comportamento
piuttosto strano, il muso lungo. “C'è qualcosa che non va ?”
“No no tutto a posto” continuava a ripetere.
Dopo varie insistenze alla fine mi sputò tutto in un fiato.
“Ho un dubbio al Moulinon, non sono sicuro di un passaggio”
Il Moulinon distava almeno 400 km dal Turini e tutti di
strada normale tranne un pezzetto sopra a Montecarlo, costo
dell'operazione almeno un giorno intero.
“Va beh andiamo al Moulinon” gli dissi senza fare una piega
e partimmo, muletto valigie e tutto sopra.
Ci mettemmo una vita e quando arrivammo sul posto, si guardò
per bene il suo “dubbio” poi senza tanti problemi ce ne
tornammo a Sanremo per poi ripartire quasi subito per
Marrakesh in aereo da Torino e iniziare un rally che durava
dieci giorni.
La bottiglia era ormai
vuota, i suoi occhi brillavano ancora e nelle sue pupille
rivedevo quelle scene magiche di un tempo ormai talmente
lontano e leggendario da sembrare mai esistito, mi sono
sentito un bambino che ascoltava le favole del nonno,
rivedevo le magiche scritte Lancia-Italia sul cofano delle
vetture che mi avevano fatto avvicinare, sognare e poi
abbracciare i rally.
Grazie Arnaldo a nome di tutti i veri appassionati.
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